Nella Roma che ha consolidato la propria posizione di potenza egemone un uomo, un poeta, vede il mondo cambiare e, con un'inquietudine che sconfina nello sdegno, osserva la disgregazione, lo svuotamento di tutto ciò che ritiene indispensabile per il vivere civile: le istituzioni romane, il senso di "amicitia", il patronato artistico, la famiglia.. Imperversano invece vizio e sregolatezza. Quel poeta, Giovenale, ci offre quindi un ritratto, a volte più vibrante di sdegno, altre più saggiamente riflessivo, della società del suo tempo, ma anche un'immagine dell'uomo, con le sue ansie, le brame, il tormento del vivere quotidiano.
La nostra recensione
Recensione di Maria Greco
In un'epoca paradossalmente tra le più luminose dell'impero, nella Roma di Traiano e Adriano, Difficile est saturam non scribere afferma Giovenale. Già, difficile non scrivere satire, quando ci si trova immersi in una realtà talmente grottesca da rendere persino superflua l'invenzione letteraria. Una Messalina, la meretrix augusta, ritratta mentre si intrattiene con gli svariati avventori di un bordello, una matrona in veste di gladiatrice, un patrono che mangia pietanze raffinate e offre al suo umile ospite cibi e vini rancidi, poi il surreale consilium principis convocato da Domiziano per stabilire le modalità di preparazione di un enorme pesce e infine la decadenza della letteratura, rimasta senza un soldo: nessuno darebbe oggi a Cicerone duecento sesterzi...
Giovenale, irriducibile nella sua indignatio - che, come afferma egli stesso, ha ereditato dagli Epodi di Orazio - ci offre lo spettacolo di una Roma degradata e corrotta e ci lascia scorrere davanti una terribile processione di donne e uomini deformati, come maschere tragiche, dal vizio e dal delitto. Egli dichiara a più riprese - non ha bisogno di inventare nulla, gli basta guardarsi intorno. Ah! I bei tempi andati! Com'è accaduto che la grande Roma, la capitale del mondo, il cuore dell'impero, sia sprofondata entro un tale abisso di perversione?
Ti chiedi tuttavia da dove vengano queste mostruosità e da che fonte? Un'umile fortuna rendeva caste le donne latine un tempo e non permettevano ai vizi di toccare le dimore modeste la fatica, il poco sonno, le mani indurite e rovinate dalla lana etrusca, Annibale nei pressi della città e i mariti là, sulla torre Collina. Ora soffriamo i mali di una lunga pace; più crudele delle armi irruppe il lusso e fa le vendette del mondo vinto.
Risposta scontata, ben nota al ceto intellettuale romano, evidentemente di matrice sallustiana: tutti i mali dopo le guerre puniche, tutti i mali dall'opulenza. Anche per Giovenale causa di ogni degenerazione sono, in fin dei conti, le divitiae, le ricchezze che presero a confluire a Roma dopo la sconfitta di Cartagine, quando Roma compì il suo più grande passo lungo la strada dell'imperialismo. E tuttavia si dovrà aggiungere per dovere di cronaca - non avrà influito sullo sguardo indignato, arrabbiato e rancoroso del nostro Giovenale l'umile condizione di cliente cui lo costrinse la sua onesta paupertas? Non doveva mordergli un po' l'animo quell'assistere impotente agli spettacoli osceni e indegni di volgari detentori di incalcolabili patrimoni? Egli stesso dovette avviare una riflessione su questo, e la rabbia, una volta sfogata, finisce così con l' incanalarsi entro forme più distese: si può piangere come Eraclito o ridere come Democrito...