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La trasfigurazione in forma narrativa di un anno che David Foster Wallace, nel bel mezzo degli studi universitari, trascorse lavorando per il Centro controlli regionale dell'Agenzia delle Entrate di Peoria, nell'lllinois. Un romanzo labirintico, che tra finte prefazioni e digressioni, minuziose descrizioni che ricordano i cataloghi dell'epica antica e sintesi fulminanti, riesce a trasformare gli eventi più ordinari in avventure miracolose. Una gigantesca macchina tra saggio e racconto, popolata da un'umanità insieme buffa e dolente e sorretta dall'ambizione quasi filosofica di raccontare la noia, ossia tutto ciò che di solito viene escluso dalle storie perché ritenuto privo di interesse. E che qui viene evocato con grande empatia, nel suo inscindibile misto di banalità e dignità.
Abbiamo appena finito di leggere "Il re pallido", ultimo (in tutti i sensi) libro di David Foster Wallace, rielaborazione postuma di oltre duemila pagine di bozze che l'autore aveva lasciato nel suo garage prima di suicidarsi nel 2008. Michael Pietsch, storico editor di Wallace, ha dato a questo romanzo incompiuto la forma finale basandosi sull'architettura progettata dallo stesso DFW prima di trasferirsi nell'Aldilà. "Il re pallido" è la storia di un esattore delle tasse al lavoro a Peoria, mesta cittadina di provincia, in un ufficio dove si rivedono le dichiarazioni dei redditi. Sembrerebbe un soggetto poco avvincente se Foster Wallace non riuscisse a trattare proprio noia e monotonia come cose degne di essere raccontate, e il suo protagonista come un buffo e grandioso eroe del quotidiano.
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